Sei in: home - dialetto viestano - i miei viaggi con Santaruccio.
Quando in una stanza della scuola elementare di Vieste, ospitata nel palazzo del comune, qualcuno disse a mia madre che loro non erano in grado di provvedere alla mia istruzione primaria, iniziarono i miei viaggi per l'Istituto Statale Augusto Romagnoli di Roma.
Tre andata e ritorno all'anno: natale, pasqua e vacanze estive; per cinque anni, dal 1973 al '78: pullman per 107 chilometri fino a Foggia, treno per Roma, quindi bus 64 e 98 fino all'istituto.
Ai tempi il capolinea del pullman della SITA per Foggia era “in piazza”, davanti al negozio di calzature Lucatelli. La corriera era azzurra e di forma bombata; i biglietti si facevano a bordo e c'era sia l'autista che il mitico bigliettaio "Libborio".
Nessun tratto di superstrada e nessuna galleria; due ore e mezza di viaggio, di cui oltre una e mezza di curve, tornanti e saliscendi a picco sui burroni e in mezzo al nulla del Gargano.
Partivo con l'ultima corsa della sera, alle 17:30, con mio nonno Sante, dalla nonna Lucia chiamato affettuosamente "Santaruccio".
A Foggia mi godevo le ore d'attesa dell'espresso notturno per Roma seduto sulla panchina in marmo avanti alla sala d'attesa di seconda classe (ai tempi esisteva ancora…) Santaruccio restava all'interno, seduto ma vigile, sulle vecchie panche di legno con lo schienale.
Dalle otto di sera a dopo le undici guardavo passare i treni per Milano, Torino, Venezia e Bolzano. Riconoscevo locomotori, carrozze, numeri identificativi dei treni, gli annunci dell’altoparlante... E' su quella panchina che ho sognato di diventare macchinista.
Dopo le undici di sera un locomotore da manovra piazzava un paio di carrozze sul quarto binario tronco lato sud, che all'arrivo del treno da Lecce per Roma dopo l'una, sarebbero state agganciate al convoglio. Noi passeggeri aspettavamo con trepidazione il piazzamento delle carrozze aggiuntive, in modo da poterci ritirare in uno scompartimento e sperare di dormicchiare fino al mattino.
Dalla stazione Termini all’istituto, prima il 64 (talvolta a due piani), poi il 98, ci permettevano d’affrontare l’ultimo miglio, ancora un po’ rintronati dal viaggio notturno.
Santaruccio parlava poco; apprezzavo il fatto che si fidasse e lasciasse guardare i treni a questo suo nipote, che non avrebbe mai potuto guidarli; lui ex marinaio, io ferroviere mancato.
Erano viaggi silenziosi e sereni; ricchi di ipo-immagini e di suoni.
(19/12/2019)
ultimo aggiornamento: 12/2020
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